Quanto vorrei credere ancora di poter cambiare il mondo. Quanto vorrei avere ancora quelle energie per vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.
L’ultimo mese mi ha messo davanti agli occhi le milioni di difficoltà che un educatore incontra quando vuole trovare un luogo dove poter svolgere il proprio lavoro, o quando pretende riconoscimento (o anche solo comprensione e ascolto), o quando chiede un compenso dignitoso di fronte al lavoro che è chiamato a svolgere.
Certo, non è nulla di nuovo…tutte dinamiche che avevo chiare fin dal primo anno di università. Ma forse sono sempre stata molto fortunata. Lavorare in una scuola paritaria mi ha un po’ estraniato e sollevato da queste fatiche.
Adesso però il contesto scolastico non mi basta più. Adesso sento che la mia “mission educativa” deve essere portata fuori dalle quattro pareti di un’aula.
E qui viene il bello…il mio territorio, il territorio sul quale vorrei investire e con il quale vorrei collaborare, non ha un’offerta valida e soddisfacente da propormi.
L’unica alternativa possibile al lavoro scolastico è l’inserimento in una cooperativa sociale (e/o in una comunità), dove però il rapporto tra compenso e ore di lavoro è ridicolo e dove la richiesta principale è incentrata sull’accompagnamento di anziani e di persone nella terza o quarta età.
E se io non mi sentissi chiamata o capace di affiancare le persone in quella fascia d’età? Se io mi sentissi più vicina all’età evolutiva?
O addirittura se io volessi immergermi nel mondo della disabilità o della povertà e fragilità in senso lato?
Si dice tanto che nei contesti educativi ci sia un bisogno disperato di personale qualificato e preparato, ma cosa viene lasciato in cambio? Come vengono ascoltate le richieste e le esigenze del lavoratore?
Qual è il messaggio che il mio territorio mi sta lasciando? Che qui non c’è posto per me? Forse però non tutti sono disposti ad andare via, o forse non tutti vorrebbero trovare nella fuga l’unica soluzione.
Non credo ci sia una soluzione che porti ad un cambiamento radicale (motivo per cui non credo più di poter cambiare il mondo), ma ci sarà quanto meno qualcuno disposto a rispondere a queste domande e a scommettere sul valore della dimensione educativa?
Va beh…anche se non posso cambiare il mondo, continuerò a credere che l’educazione sia ancora una forma di resistenza. Una strada lenta, faticosa, ma necessaria.
Anna, 13/11/2025
Ho sempre pensato che un educatore, un insegnante, un qualsiasi professionista inserito in un contesto educativo e/o di cura, dovesse in qualche modo trovare lo spazio per riordinare i pensieri. Serve per non lasciare che pensieri, riflessioni, idee e domande gironzolino costantemente per la mente.
Io, per esempio, ho per tanto tempo avuto un diario. Mi ha tenuto compagnia nelle sere in cui, tornata dal lavoro, ero indecisa sulle attività da proporre il giorno dopo o sugli interventi concreti che potevo portare in classe per gestire situazioni apparentemente troppo ingarbugliate.
Non era un sostegno particolarmente attivo… ma quel diario è stato un ottimo compagno di viaggio. E forse lo potrebbe essere ancora. Tuttavia i nodi da sbrogliare diventano sempre di più e le attività da pensare, progettare e organizzare richiedono una crescente precisione, attenzione e cura.
Credo che oggi, per chi lavora nel mondo della scuola (ma non solo!), non sia sufficiente programmare e pianificare attività didattiche piene di contenuti, che rispettino tabelle ministeriali e curriculum, verticali o orizzontali che siano.
I primi trenta giorni di scuola di quest’anno hanno davvero messo sul tavolo carte, questioni importanti. Non sarebbe giusto che le leggesse solo il mio piccolo diario.
L’enorme potere delle parole che usiamo per dialogare con bambini, ragazzi, ma anche colleghi, gli sguardi d’amore e di affetto che possiamo offrire gratuitamente, l’orecchio che possiamo tendere per accogliere ed ascoltare fatiche e gioie che appesantiscono lo zaino, i gesti di cura che oggi il mondo non fa più conoscere e non mostra più: sono tutte dimensioni dalle quali non possiamo sottrarci.
Forse, se il mio diario potesse parlare, mi direbbe che è questo ciò che conta in una relazione educativa. Forse mi direbbe che tutti i pensieri e le fatiche che porto a casa la sera vanno affrontati con una chiave di lettura diversa.
Ce lo diceva già Maria Montessori il secolo scorso: “L’educazione è un atto d’amore, quindi di coraggio”.
A volte forse abbiamo davvero bisogno di ricordarci di avere coraggio, perché non c’è niente di più urgente e niente di più importante di tessere relazioni che siano fondate sull’amore e che siano portatrici di cura, ascolto e dialogo empatico.
Anna, 12/10/2025